30 ottobre: #Mienmiuaif e UOMOVIVO tuttinsiemeappassionatamente!

DOMENICA 30 OTTOBRE: grande evento in provincia di Bologna!

Alle ore 15, nel teatro Parrocchiale di San Matteo della Decima – via Cento, 190 – avrà luogo la presentazione della collana UOMOVIVO (Berica Editrice) alla presenza degli autori: Paola BELLETTI, Edoardo DANTONIA, Emiliano FUMANERI e Giuseppe SIGNORIN.

A seguire: concerto LIVE dei #MIENMIUAIF (Anita Baldisserotto – voce, Giuseppe Signorin – basso, Enoch Montagna – chitarra, Nicolò Visentin, batteria)

A seguire ancora ….. buffet creativo!

Saranno presenti degli animatori per intrattenere i più piccoli.

Intervenite numerosi e invitate flotte di amici!

Pagina Facebook dell’evento

mienmiuaif

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Come la Clinton tenta d’infiltrarsi nella Chiesa

clinton-podestadi Emiliano Fumaneri

Wikileaks rivela le manovre dello staff di Hillary Clinton: creare associazioni di “cattolici adulti” per infiltrare la Chiesa e promuovere una rivoluzione culturale e dottrinale. Lo scopo e far accettare l’agenda liberaldem su contraccezione, omosessualità, gender. Ma ma non sono solo i Dem a cercare di manipolare l’insegnamento della Chiesa e il comportamento politico dei cattolici: per questi ultimi resta solo il dovere di «aprire una terza via». Continua a leggere

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Quello che non so

di Paola Belletti
(pubblicato su https://paolabelletti.wordpress.com)

Non so cosa mi aspetta domani.

Non so che cosa mi diranno le bambine appena le incontrerò, domani.

Non so.

Non so quali parole atti o cose passate attraverso me come un cavo trasmittente e ignaro hanno toccato chi e hanno lasciato cosa. Qui in camera, al bar. Al piano sotto questo e al piano terra.

Non so in che giorno della settimana sono nata e anche se mia mamma me l’ha detto qualche volta il ricordo sfuma. Mi immagino il papà che corre avvisato dalla segretaria dell’azienda e la sua faccia quando scopre che sono io, una bambina.

Non so, non so.

Non so di cosa soffra il bambino appena ricoverato nella stanza n 23, quella singola, video controllata. Non so cosa pensi provi speri sua mamma. E suo papà?

So che siamo tutti pallidi, quasi azzurri come i corridoi.

Non so perché solo nella nostra stanza manchi il crocifisso. La ragazza in camera con noi disegna bene. Ho voglia di chiederle di disegnare un crocifisso ma non ho il coraggio. Ancora.

Non so quando usciremo davvero perché le informazioni sono parziali, troppe variabili a giocare sul piatto dei giorni.

Non so perché ogni volta che vedo un cielo terso con un azzurro così forte che sembra uno schiaffo mi prenda una grande nostalgia ed un senso di spreco. Ah sì, lo so. È perché non ho più il lago a poco da me. Se c’è sereno o anche un forte vento il lago mi chiama. Devo sapere com’è questo azzurro specchiato nelle acque grandi del Garda. E vedere le corse del vento in mezzo alle onde che alza.

Non so.

Non so perché a quella ragazzina senza respiro nello sguardo sia successa una cosa così orribile. In tre, due anni fa, le hanno fatto male. Tre maschi e lei bambina. Ma a loro importava solo fosse femmina. Non parla, ogni tanto il vulcano esplode e travolge chi passa.

Non lo so e mi affretto ad abbandonare le scene immaginate e i “se capitasse a chi so io” senza neanche riuscire a dire un nome perché nemmeno lì, dentro un’ipotesi, possa trovarsi vicino a tanto orrore.

Non so e prego. Sono stanca e un po’ sciatta nelle orazioni. Il corpo trasferisce alla mente quel senso di non dovere fare niente. E invece è che non si può fare niente. Ho proposto alla mia compagna di stanza di chiedere un tapis roulant. Ha riso, cara. Così arrabbiata, estrema nel suo non riuscire a sperare e ogni tanto la gioia fanciullesca sale e la fa bere. Come aranciata nella cannuccia. Poi torna giù.

Non so come mostrare un po’ di bene  a lei e alla sua mamma che all’inizio di una nottata ha rovesciato la sua mente un po’ confusa in braccio a me. Dolori, separazioni, malattie. Tradita, picchiata. Poi l’esaurimento. «Poi riparto e mi hanno detto “complimenti signora, davvero. Ce l’ha fatta”. Prendo ancora medicine e non lo dico mai a nessuno». E a me? Penso.

Continuano a scendere parole e ricordi. Figlie sgattaiolate nella vita perché quella sera lui era stato così gentile e mi aveva salvato dall’altro. O perché l’altra i preservativi erano finiti.

«Che faccio- mi dicevo? Faccio nascere un altro figlio qua dove ci sono marito e moglie che non si comprendono e litigano? Sì, lo faccio, però.. ».

Non so perché la zia ricca si sia presentata con un computer nuovo e avesse quello sguardo di trionfo..sei contenta Lucia? Dai che adesso sei contenta!

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Non so perché solo a me Lucia racconti quanto vorrebbe farli contenti e dire che è passato tutto e ora sa perché è al mondo e sa che può essere felice. «Ma come posso pensare che questo succeda per un computer nuovo? Ecco ora mi sento in colpa. Dovrei essere contenta per davvero. Loro se lo aspettano.. Non posso».

Non so cosa le dicano i dottori. Sono preparati, certo. Intanto io le dico che ha ragione. Il tuo cuore grida, bambina. Hai tante ragioni, i tuoi ti vogliono bene. Siamo tutti insufficienti, sai?

Passa un sacerdote tutte le mattine. Si ricorda di Ludo dal primo ricovero. “Certo che me lo ricordo! Pensavo mamma com’è bello questo bambino. Che mistero la sofferenza innocente”.

E poco dopo, lui cappuccino, scopertosi chiamato dopo 5 esami di Biologia, innamorato del nostro Dio, dice con enfasi sussurrata: «com’è grande il Nostro Signore. Come è meraviglioso!»

E passa tutto il giorno a visitare persone ammalate, molti sono bambini. Si è allenato a non assuefarsi al dolore e a non impazzire. Inizia il giro dei 7 reparti dopo la preghiera. Ascolta, accarezza..un po’ freme. Ha l’Eucarestia sul petto. Nascosta.

Se ricominciasse una grande fame, che bello..

Se ricominciassimo ad andare a mangiare l’Ostia. Se ci ricordassimo di più che c’è questo strano estuario di pane che ci butta in mare..

Certo, facile farne poesia. Difficile confessarsi, comunicarsi e non vedere succedere niente. E tornare nello stesso corridoio, alla stessa poltrona dura. Tornare e vedere i bambini uguali. Il pianto monotono di quello piccino e biondo sempre girato verso destra. Con la sua mamma magra e bionda lei pure.

La mamma che si fa dire tutto dal figlio ma non lo ascolta davvero. Lui le dice che è colpa sua. È colpa tua e del papà! Dice e singhiozza. Si sono lasciati e presi troppe volte.

Dovevo appoggiarmi a qualcosa e cercavo in voi ma voi eravate frana. Illusione di roccia..

Povera mamma che, pure, non si accorge, due minuti, dopo di dire a me che “adesso basta”. È ora si faccia una sua vita. Ha sofferto troppo. Hai sofferto tanto. certo.

Facile.

Facile sorridere, seppure con compassione sincera; facile, per chi ha deciso di lasciarsi andare e obbedire alla vita. E nel regno del paradosso, finalmente, a passo incerto e rotto da ripensamenti e strattoni d’orgoglio, ora sì, mi sento libera.

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Papà, lo sai che mi somigli?

di Joseph Marlin
(pubblicato su http://josephmarlin.blogspot.it/)

L’altro giorno, per una banale discussione con mio padre, ho avuto uno scatto di rabbia molto forte. La discussione era banale, il mio vissuto no. Ho sentito dentro me un profondo senso di impotenza, una vergogna profonda, nel sentire quanto l’appoggio di mio padre fosse limitato, quanto lui non potesse soddisfare i bisogni che sottostavano quella banale discussione. Allora ho gridato, ho gridato forte. Ho gridato il mio dolore, anni di sofferenza. Ho gridato perchè quel divario che per anni ho sentito era riemerso nella sua interezza e rischiava di lacerarmi dentro se non lo facevo uscire tutto. Ho gridato perchè quando ti senti bastonato e non sai perchè è normale farlo. E io mi sentivo così. Non mi sto giustificando. Sto spiegando come mi sentivo dentro. Oggi sono grande. Avrei potuto trovare altri modi per gestire quel vissuto, forse più utili. Ma no, non sempre ci riesco. Poi, gli ho gridato cose brutte, su quanto il suo modo di fare mi avesse annientato nella vita, su quanto lui non valesse niente. Poi sono uscito. Mi sentivo terribilmente in colpa. Sentivo di aver fatto un danno irreparabile. Di aver sbagliato. Che io non mi devo permettere. Che lui fa il meglio che può e che molte volte fa bene. Pensavo, però, allo stesso tempo, che nonostante avesse sbagliato, non dovevo permettere a me stesso di negare il bisogno, il vissuto, che aveva generato quella reazione. Ho pianto, pianto tanto.

papa-e-bambinoPoi l’ho chiamato, gli ho chiesto scusa, e diversamente da come facevo di solito non pensavo dentro di me “non ci parlerò mai più, è impossibile”, ma gli ho detto “ti prego, però papà ,superato tutto questo, parliamone mettiamoci a tavolino, voglio spiegarti perchè ho fatto cosi, mi piacerebbe che anche tu lo facessi, non lasciamo correre anche stavolta.” Poi sono tornato a casa. Lui era sul divano. Mi ha detto: “vieni qua”. E io mi sono messo lì, mi è venuto spontaneo abbracciarlo, poggiare la mia testa sulla sua pancia. Non so quanto tempo siamo stati li. Ero tornato bambino, mi cullava. Mancava solo la ninna nanna. Mi ha accarezzato i capelli, ci toccavamo le mani, sentivo il suo cuore nel mio orecchio, toccavo il suo petto, ogni tanto ci stringevamo forte. Mi ha detto: “Sei prezioso.” Allora ho pianto, quanto mi è mancato tutto questo, quanto mi mancherà, papà. So che non volevi. Stringimi più forte. No non c’era più bisogno di parlare, non ora. Eravamo cosi vicini. A un certo punto ci siamo alzati e siamo rimasti a guardarci negli occhi. Tentavamo di fare dei gesti sincroni. Anche nella mimica facciale. Io imitavo lui, lui imitava me. Poi ci veniva da ridere e abbiamo riso insieme, tanto.

A un certo punto, mentre ci guardavamo negli occhi, è come se un velo si fosse tolto. Si fosse tolta la paura, la diffidenza, anni di ferite. A un certo punto l’ho visto. Papà, sai che ci somigliamo? Giuro, forse lo sapevo a un livello superficiale, ma non lo avevo mai sentito. Non so come andranno le cose per me, se certe cose poi che si sono frantumate in modo cosi impetuoso, possano tornare com’erano prima. So però che sono fiero del mio percorso, se non lo avessi fatto, non sarei qui oggi. Non avrei sentito che mio padre, in fondo, mi somiglia. Che ho i suoi occhi, il suo sorriso. Forse in tutti questi anni, anche mio padre, alla fine si è lasciato coinvolgere. Ha saputo mettersi in discussione e oggi siamo riusciti a vederci e a sentirci, reciprocamente. Non so se tutti avranno questa fortuna, quello che, però, voglio dire è che, spesso, dietro le attrazioni per lo stesso sesso, si nascondono desideri profondi e legittimi. Giusti. La mia speranza, è che quelli che vi si trovano e riconoscono questo, possano intraprendere un percorso che li porti a conoscere sempre di più questi desideri e a riuscire a soddisfarli. Ognuno con i suoi modi, le sue modalità. La ricchezza che c’è in questo lungo ritorno a casa, nel ritrovare cose che ci spettavano di diritto ma che, per un motivo o per un altro, ci sono state negate, è qualcosa per cui ritengo le parole non possano bastare per descriverlo.

Bè oggi te lo sei meritato papà. Forse avrei voluto che tutto questo avvenisse prima, avvenisse più spesso. Però, grazie. Non conta prima. Conta oggi. Oggi so che mi somigli. Ti voglio bene.

 

 

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Famiglia e virtù: 12) Raccontare se stessi

Dodicesima puntata sulle virtù che rendono la famiglia un focolare luminoso e allegro.
Oggi – Paolo Pugni – ci parla della “capacità di raccontare se stessi“, che deriva dall’essere così in sintonia con se stessi e con gli altri, da non avere paura a raccontare quello che si prova.

Buon ascolto!

Famiglia e virtù: 12) Raccontare se stessi

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La guerra biopolitica

pro-life-march-washington-dcdi Andreas Hofer

Quello che giorno dopo giorno si sta formando sotto i nostri occhi è un nuovo sistema della «menzogna organizzata», avrebbe detto il grande dissidente Aleksandr Solženicyn. Tuttavia c’è una differenza sostanziale rispetto ai totalitarismi novecenteschi: il nuovo totalitarismo della “società radicale di massa” si presenta in veste chic. È una tirannide dal volto umano, civilizzata, che volendo apparire ludica e amabile può permettersi anche una governance confidenziale. La civiltà tecnologica permette l’adozione di strategie di dominio più diversificate e sofisticate; l’esercizio del potere non ha più bisogno di manifestazioni roboanti. Continua a leggere

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Uomo e androide: la nuova frontiera del love is love.

Quando la pratica della sessualità cessa di tener conto della trascendenza della persona e quando l’uomo non sente il valore della riduzione da due ad uno, carne sola anima sola, qualsiasi pulsione trova il razionale nell’implausibile, fino alla relazione sessuale ed emotiva tra uomo e robot.

Trepida attesa per il prossimo trend dell’innovazione scientifica che entrerà nella privacy degli uomini offrendo loro una compagna immortale. Matt McMullen, padre delle RealDoll, servizievoli e costosi (dai 3000 ai 10000 dollari) strumenti a consumo dei più grezzi istinti sessuali, aspira con il progetto RealBotix, presentato nel 2015, a superare i limiti della staticità delle tradizionali “bambole del sesso”: si tratta di finte donne con un’intelligenza artificiale che risulteranno all’altezza di relazioni affettive quasi umane con i clienti. Lo scopo principale, stando alle dichiarazioni di McMullen al New York Times, è di creare l’illusione di un reale rapporto con l’utente tale da sviluppare un attaccamento emotivo non solo per la bambola ma anche per il carattere, fino alla presenza di un sentimento amoroso nei suoi confronti. Il team della Hanson Robotics ha, come termine ultimo di questo lavoro di alta ingegneria, una nuova versione RealBotix che avrà autonoma gestione del corpo, così il coinvolgimento potrà dirsi ottimale per l’esigua cifra finale dai 30.000 ai 60.000 dollari. Un progetto che si rifà e supera quello già presente sul mercato, lanciato nel 2010, dall’ingegnere dell’azienda americana True Companion, Douglas Hines, con la bambola Roxxxy (e la versione maschile Rocky), dotata di un’intelligenza artificiale che le consente di memorizzare e capire i gusti del cliente per un costo dai 995 ai 6000 dollari. Questa donna non-donna, coinvolge il compagno costruendo e manifestando una progressiva personalità, scelta tra le cinque a disposizione nel mercato, adattiva e manipolabile, via via sempre più compatibile con quella del cliente.

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Alcuni sessuologi, come Michelle Mars, e giornalisti futurologi, come Ian Yeoman, ipotizzano da tempo un futuro nel quale problemi come le malattie sessualmente trasmissibili e la tratta di esseri umani, saranno riservati a memorie passate grazie a vetrine di piacere dei quartieri a luci rosse olandesi ben fornite non di prostitute umane ma quasi umane, oltre l’umano, ovvero prostitute-robot che renderanno difficile palesare l’essere umano da ciò che tenta di assomigliargli. La sottile linea di demarcazione tra i due è un dato preoccupante a detta di Kathleen Richardson, esperta di robotica, e di Erik Billing, ricercatore svedese di scienze cognitive: secondo i due urge un intervento immediato atto a bloccare tempestivamente questo stridente sviluppo della biorobotica del quale preannunciano catastrofiche ritorsioni nella sfera privata-relazione umana.

L’universo del transumanesimo mira a fare dell’uomo un suo possesso a prescindere da se stesso interferendo con l’artificio sull’inconoscibile di questa creatura. Privare di senso l’atto sessuale ha trasformato l’uomo da potenziale collaboratore al progetto creativo di Dio, alla perversione della sua natura. Ipotizzare la sessualità come complementarietà di organi, e non di persone, nei suoi fisiologici meccanismi che niente aggiungono a quelli degli altri apparati anatomici, non rende giustizia del fatto che per questa funzionalità noi abbiamo bisogno dell’altro, chiediamo l’altro, senza il quale cade nell’insignificanza ogni gesto sessuale. La sua naturale predisposizione all’apertura di sé appoggia ogni questione a riguardo su un piano esistenziale, motivo per cui è più corretto parlare non di atto sessuale, ma di sessualità, il cui atto non è che parte di un costrutto molto più ampio, ovvero la persona. Ma di che natura razionale si potrà parlare in un tempo futuro, ormai prossimo, che non stima l’uomo nemmeno capace di mettersi sentimentalmente in gioco con un altro essere umano? Perpetrare in una cultura del sesso misconoscendo il mistero dell’anima che vive dietro a quel corpo sta fomentando la solitudine per individui incapaci di sopravvivere con essa. Nessun robot umanoide potrà compensare l’irripetibilità della creatura, il mistero dell’imprevedibilità psicologica, sentimentale, spirituale di qualsiasi soggetto. Non c’è finzione autocostruita che possa aiutare l’uomo a sollevarsi dal vuoto che sta contribuendo a determinare attorno a sé depositando ogni intenzionalità sul proprio ego e qualsiasi responsabilità al qui ed ora. Se non fosse socialmente comprovata una tale debolezza e fragilità della carne, non ci sarebbe investimento a così alto costo sulle prestazioni sessuali: se ci fosse una conservata consapevolezza che l’intimità è vulnerabilità e la vulnerabilità è finitezza e la finitezza è accettazione dell’altro, non sarebbe desiderabile ed eticamente ipotizzabile un coinvolgimento amoroso con un oggetto nullo.

Il mercato dell’industria del sesso, proponendo una sorta di “autoerotismo assistito”, marcia sulla patologica perversione erotica incentivando coloro il cui equilibrio è già stato sbilanciato e destrutturando quello marginalmente integro di chi sente scuotere la propria curiosità e cede a fantasie poco dignitose. L’allontanamento dalla natura intrinseca del rapporto sessuale, ovvero l’incontro e il mutuo riconoscimento con l’altro, fa parte di devianze, anormali indici di sofferenze latenti. L’entusiasmo sconcertante di molti sulle frontiere future dei prossimi matrimoni tra robot e uomo, devono indurci a metter freni consapevoli a questa libertà del piacere che ha corroso la dignità umana spingendoci a recuperarla in seno alla razionalità di cui siamo portatori sani e non denigrandola cercando smaniosamente la conferma che ogni cosa è determinabile a nulla più che materia. L’uomo androide è il manifesto di una società troppo orgogliosa per amare ed eccessivamente vanitosa per riconoscersi.

Giulia Bovassi
(pubblicato su http://www.notizieprovita.it)

 

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Famiglia e virtù: 11) L’amicizia

Dopo qualche mese di assenza, Paolo Pugni ricomincia a far sentire la propria voce sul blog delle Foglie Verdi.

Per l’occasione, ecco a voi due minuti sul tema dell’amicizia in famiglia: amicizia tra coniugi e amicizia tra genitori e figli.

Buon ascolto!!  (E grazie Paolo!)

clicca qui –>  Famiglia e virtù: 11) L’amicizia

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“Rivolta alla Locanda”- dal 16 settembre

Mettete un giovane esattore delle tasse di nome Friedrich Malthus in una locanda con un vecchio idraulico e collezionista di sottobicchieri di nome Alonso Pecherton, aggiungete un viaggio pieno di risse alla Bud Spencer e di dialoghi metafisici da perderci la testa e otterrete “Rivolta alla Locanda”, il nuovo libro della collana “UOMOVIVO – umorismo, vita di coppia, Dio”, edita da Berica Editrice.

Un western onirico che sembra scritto da Chesterton, nume tutelare del giovanissimo Edoardo Dantonia, il quale non nasconde la sua profonda “amicizia” con lo scrittore inglese re dei paradossi e anzi lo omaggia con un romanzo breve ma intenso dichiaratamente ispirato alla sua poetica.

L’opera sembra voler ribadire un concetto ovvio ma probabilmente dai più non preso abbastanza in considerazione: e cioè che non ci si salva da soli. Da questo presupposto parte l’assurdo viaggio dei due improbabili compagni d’avventura. Il lettore s’imbatterà in un Pecherton che trascina in giro per il mondo quasi di peso (anzi, senza “quasi”) il “povero” Malthus: dal buio lo porta alla luce, dall’abisso lo innalza. Perché a volte per far rinascere una persona sono necessarie botte da orbi.

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Sia chiaro: non c’è solo Chesterton, anzi. C’è tanto amore per la vita, tanta Speranza, come pure la Fede e la Carità (anche se quest’ultima maneggiata più col badile che con il cucchiaino del miele), e una buona dose di apparente follia.

Marco Sermarini, presidente della Società Chestertoniana Italiana

Pare lapalissiano affermare che da soli non è possibile ottenere la salvezza, siccome è Dio ad elargire questo dono, ma quello che intendo dire è che non si tratta mai di un rapporto esclusivo tra noi e Lui. Non è soltanto nella Comunione o in ginocchio davanti al Crocefisso che si entra in contatto con Dio, ma anche nel rapporto con l’altro. Non ‘io e Tu’, ma bensì ‘io, Tu e l’altro’. Di questo mi sono reso conto nei momenti di solitudine, di scoramento, quando cioè nel buio della mia stanza, in un momento di vuoto spirituale, arrivava l’sms di un amico che mi invitava ad uscire e mi traeva letteralmente dall’abisso.

Edoardo Dantonia
(Pubblicato su https://mienmiuaif.wordpress.com – 09/09/2016)

Dal 16 settembre “Rivolta alla Locanda” sarà disponibile in formato cartaceo e digitale presso la libreria online di Berica Editrice.   Per maggiori informazioni o prenotazioni, è possibile scrivere un’email a mienmiuaif@gmail.com.

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La perfetta imperfezione

Un puzzle per essere ricomposto in modo adeguato ha bisogno non solo che vi siano tutti i pezzi, ma anche di un’ immagine di riferimento, la sua immagine.
Una sorta di specchio da osservare, scrutare, contemplare o ignorare, talvolta.

Oggi ci troviamo immersi (consapevolmente o no) in una battaglia, che non ama soste, tra una cultura della vita e una cultura della morte; non una consapevolezza della vita e una consapevolezza della morte, bensì due approcci diversi all’esistenza che di per sé non possono che propagarsi in maniera del tutto antitetica. Uno scontro così radicale non lascia deserti solitari per nessun uomo che si dica appartenente a questo mondo: l’eco di una pressante presa di posizione, una convinta scelta di coraggio e valore implica una comune responsabilità. Il cruccio però è che non è possibile adoperarsi con atti pienamente liberi se non si sa dove dirigere la nostra coscienza.

Brain-Puzzle-PieceL’immagine del puzzle di un essere umano, con un passato a sua determinazione, un futuro nell’ottica del bene comune, un presente costruito e inalberato nelle altre due dimensioni temporali, è per lo più inesistente: i pezzi di questo mosaico sono incompatibili perché non riescono a vedere chi dovrebbero essere nella bellezza dell’opera. Trattare di “questioni di inizio-vita, fine-vita”, tradotto significa ritorno alle origini e si capisce bene quanto il cammino sia ostico se la nostra origine, che è anche la nostra fine, viene lavata da qualsivoglia ingrediente costitutivo.

L’uomo che non trova i punti di congiunzione per ricostruire la propria identità è l’uomo che oggi aspira alla trascendenza mediante la sua mortalità. Tendere all’egocentrismo rivolgendo a sé la sufficienza della propria condizione è causa e conseguenza di una società priva della capacità di pensare l’imperfezione, perché essa stessa sfugge al dominio del controllo onnipresente e totalizzante. La resa pratica di questi frammenti d’uomo è il punto nel quale l’intervento bioetico si fa cuscinetto a prevenzione o cura dell’urto inevitabile: dal figlio al quale l’aborto nega la possibilità di essere cittadino del mondo, all’eutanasia dove il sentimentalismo ha mascherato l’indicibilità della morte e della sofferenza giustificando il venir meno dell’essere cittadini del mondo.

eduard-verhagenInizio–vita e fine-vita. Questi due poli, tra i quali si sottendono molte altre sfaccettature del diritto al desiderio realizzato/riconosciuto, trovano un raccapricciante punto d’incontro in una realtà della quale di rado si sente notizia in quanto esonerata dal politically correct: il Protocollo di Groningen, un accordo tra la clinica universitaria di Groningen e la magistratura olandese, il quale prevede di estendere la possibilità di ricorrere all’eutanasia anche per i bambini sotto i 12 anni, fino all’età neonatale, senza il rischio di essere perseguiti penalmente. Il primario del reparto di pediatria dell’Ospedale Universitario di Groningen, il dottor Eduard Verdhagen, propose questo documento nell’intento di delineare una procedura “standard” applicabile nei casi patologici più difficili, auspicando la liberazione dal dolore nei neonati gravemente malati.

L’eutanasia, secondo il protocollo, non costituirebbe reato se applicata per tre categorie di pazienti: 1) neonati con alte probabilità di morte post nascita nonostante l’applicazione dei presidi disponibili; 2) neonati con prognosi estremamente infausta in regime di terapia intensiva, quindi con possibilità di sopravvivenza avente prognosi pessima e bassa qualità di vita; 3) neonati con una scarsa qualità di vita causata da sofferenze, a giudizio di genitori e medici, insopportabili (ad esempio: forme gravi di spina bifida, una pesante disabilità che richiede cure incessanti lungo tutta la vita). La proposta del dottor Verdhagen si riassume nella morte volontariamente e intenzionalmente procurata per eliminare una sofferenza presunta o esistente la cui intensità resta una valutazione a discrezione non del paziente stesso (che ovviamente in queste circostanze non può esprimere opinione né rivendicare diritti sulla propria vita), quanto piuttosto di agenti esterni familiari e/o estranei. Cessare l’esistenza del paziente risulterebbe la conclusione più umana alla quale giungere a fronte delle previsioni sul tipo di vita futura che gli spetta.

In Olanda la legislazione sull’eutanasia già includeva la possibilità per minori fino ai dodici anni di usufruire dell’aiuto a morire dolcemente a patto di una richiesta scritta, esplicita, ripetuta più volte e ragionata, che fosse poi certificata dal consenso dei genitori solo nei casi di fascia d’età compresa tra i 12 e i 16 anni. Aprire un varco normativo alla morte come soluzione fattibile anche ai neonati è l’evidente esito catastrofico previsto dalla teoria del “piano inclinato” (slippery slope), secondo la quale da uno spiraglio giuridico a favore di questi presunti diritti e false libertà si è giunti all’inevitabile scivolamento consequenziale verso un totale arbitraggio individuale delle volontà personali a discapito della coscienza altrui, oltre che della propria, sconfinando nell’abuso della potenzialità giuridica, in un spazio indeterminato come quello della situazione olandese descritta, che nulla vieta di identificare come infanticidio ed eugenismo mascherato. Il collasso del diritto come strumento funzionale alla tutela dell’inviolabilità della vita umana considerata sacra, unica e irripetibile, è lampante quando il sentimentalismo moderno giunge sino alla redenzione del delitto trasformandolo nel diritto di chi non ha voce.

th_im_id-1894-1367924870-etica_medica_up_il_magazineConsiderando l’eutanasia in sé già una pratica contraria alla vocazione medica fedele al Giuramento d’Ippocrate, nel quale è esplicito il divieto e l’antagonismo di ogni atteggiamento omicida verso il paziente, e considerandola altrettanto contraria al fondamento laico e razionale della vita intesa come dono indisponibile, che la fede avvalora come gratuito, da parte di Dio verso le sue creature, porsi a confronto con essa nella neonatologia mette ancor più in evidenza l’ideologia che soggiace alle spalle di una soppressione innocente venduta come compassionevole soccorso al sofferente attraverso la sua diretta eliminazione. L’infante è un soggetto qui assunto come oggetto di qualifica da parte di terzi che possono essere o meno addetti ai lavori: il minore è una persona debole, incapace, per condizioni naturali di sviluppo, di decisione autonoma e consapevole, pertanto risulta giustamente impossibilitato ad esprimere parere in merito alla propria vita. Arrogarsi il dovere di agire a discapito di una vittima che non può difendersi è giuridicamente ed eticamente un sopruso, oltre che una violenza prevaricatrice verso la libertà e l’autonomia di un neonato che è soggetto giuridico.

Questo angosciante caso sociopolitico olandese è la controprova della deriva che certi lasciti legislativi comportano nel momento in cui la vita e la morte cessano di essere principio e fine fuori dal possesso umano per convertirsi in meccaniche controllabili. Il piano inclinato chiede un atto di fede in ciò che sostiene poiché se ne intravvede la partenza, ma l’arrivo rimane solo ipotizzabile; eppure un arrivo c’è, in questo caso lo si riconosce facilmente nei martellanti tentativi di avanzare l’eutanasia a soggetti non considerati idonei ai codici di normalità socialmente condivisi o apprezzati (handicappati, malati mentali, pazienti in stato vegetativo, ecc..), proposte non diffuse al tempo della campagna di sensibilizzazione a favore della dolce morte. Non di rado, negli argomenti che necessitano di un consistente riscontro pubblico, si tentano le cifre più alte dell’audience mediante il tema della discriminazione: quella verso diverse nazionalità, nei confronti delle donne, degli orientamenti sessuali, per lo più. Ebbene, che cosa nella cultura dominante impedisce di essere accorti verso queste sottaciute e camuffate tipologie discriminatorie che colpiscono alcuni individui piuttosto che altri per caratteri scritti nei giudizi altrui e così assunti per veritieri? Se l’originalità, la perfetta umanità di una creatura imperfetta per natura mortale, è definita da altri al di fuori del Creatore, dove e come si potrà tracciare il confine ultimo di un criterio comodo all’utile? Il limite sfuma, inevitabilmente.

baby39Non si tratta di ipotesi, ma dati di fatto: così come avviene per l’aborto, per mezzo del quale la donna pone fine ad una vita già esistente, già in atto, spinta e supportata dalle più varie motivazioni, dalla prova costume rovinata per la gravidanza (testimonianza di un medico!), alle patologie o malformazioni più o meno gravi del feto, fino alla selezione eugenetica di un bimbo su misura, arrivando alla sua eliminazione fisica post nascita nel caso di patologie o sofferenze fisiche ingenti per poter sperare una vita “degna”. Tutte queste, e molte altre realtà, sono figlie della logica utilitarista che invade la dignità intrinseca dell’uomo, oggettivato e declassato nella sua valenza ontologica, a vantaggio delle egoistiche esigenze altrui operanti lungo la logica dell’edonismo. Con il protocollo di Groningen, vita e morte, due macrocosmi per antonomasia, sono legati dall’unico fatto: ciò che non sottostà alla determinazione gestita e gestibile dell’uomo, è per lui un mistero spaventoso che necessita di rendere meccanico per sapersi immune dall’imprevedibile.

Dietro al criterio di una sofferenza percepita come insopportabile rispetto ad una qualità della vita che si possa definire ottimale, c’è un uomo immerso nella solitudine esistenziale di una cultura secolarizzata che ha preteso di negare la trascendenza, perdendo l’immagine di riferimento di un puzzle che rimane incompleto. Morte e malattia sono divenuti neutri alla domanda di senso. La catarsi dell’esperienza della malattia è un tabù che si soffoca con mezzi immediati, quelli di una medicalizzazione dell’esistenza capace di equilibrare i mutamenti al fine di mantenere stabile uno stato di benessere e normalità. In questo senso risulta socialmente consono al mantenimento di questo stato ottimale lo scarto di soggetti che, secondo l’opinione di chi avvalla metodiche eutanasiche, non rendono ragione della loro esistenza a causa di deficit o patologie che bloccano lo status di normalità di riferimento. L’invalido avanzare non è vita, ma sopravvivenza, e l’assistenza necessaria è un rallentamento sociale.

Sulla base di presupposti simili e uguali a questi, la misericordiosa carità e amorevole cura a fondamento dei principi di socialità e sussidiarietà, è stata abbandonata in favore di una battaglia per il diritto, non di chiedere aiuto alla comunità degli uomini, bensì al suicidio. La logica perversa di una mentalità che non può permettersi di accettare la sconfitta della morte come esito inevitabile e della malattia come accidente non sempre prevedibile, non trova in sé le ragioni a sostegno della sacralità della vita al di fuori di una desiderio privato e mancando queste premesse non resta che fare i conti con l’unica conclusione possibile: la disponibilità della propria vita, che è unicamente corpo.

Così come l’aborto, l’eutanasia è la rivendicazione dell’uomo di poter disporre di sé anche in un campo tanto misterioso quale appunto la morte tanto da edificare un “diritto alla morte” e un “dovere di uccidere”. Nel caso di Groningen è ancor più lampante questa fobia dell’imperfetto: il terzo criterio di applicazione parla unicamente di sofferenza che altri, non il diretto interessato, percepiscono come insopportabile, eppure chi può giudicare oggettivamente la felicità o l’infelicità di una persona? Ne scaturisce l’amara constatazione che l’uomo da un lato cerca di ignorare l’esistenza di una temporaneità di questa vita terrena, fuggendo al pensiero della sua umanità, dall’altro egli senta dentro di sé la consapevolezza della precarietà e tenti di anticiparne la fine fissandone tempi e spazi.

Il timore della vulnerabilità ha distrutto nella cultura dominante il pregio della debolezza: quanto ci è dato apprendere dagli ultimi è un dato disperso, ma di valore inestimabile annientato dal mito del super uomo sostituto di Dio e sufficiente a se stesso. La contingenza è una condizione che ci appartiene ed è in virtù di questa transizione che la nostra esistenza assume valore e senso; il carpe diem è la spensieratezza della soddisfazione di un attimo, non ricopre una sequenza di momenti equivalenti alla durata della propria vita. Nell’anno della Misericordia è di primaria importanza vedere «l’immanenza della malattia nella persona, e la trascendenza della persona nella malattia», ovvero la possibilità di trarre da ciò che altri giudicano insopportabile la gioia della vita, ritornando a quel principio di umanità alla base di una civile convivenza sociale che riconosce uguaglianza e comunione tra i suoi membri. Immanente in quanto fa parte della precarietà che edifica la comunità umana; trascendente perché permette di percepirci oltre la nostra temporalità.
dignitaIn questa battaglia tra la vita e la morte, ci viene chiesto di amare i Figli di Dio così come sono e non di fondare, ma di riconoscerne la dignità intrinseca, la quale permane a prescindere dalle condizioni fisiche in cui si trovano. Credere che sia possibile condurre un progresso che include la divisione tra umano e meno umano arbitrariamente imposta è utopico e la storia è troppo ricca di capitoli nei quali i più deboli soggiaciono ai più forti per poter fantasticare una plausibile giustificazione ad un male oggettivo. Nel secolo del progresso non siamo ancora riusciti ad estrarre la nostra umanità dagli errori della sua finitezza e mai riusciremo a farlo finché ciascuno non riuscirà a valutare come edificante colui che oggi è considerato miserabile.

In questa incessante battaglia tra la vita e la morte, ci viene chiesto di sguainare spade per dimostrare l’ovvio, ed è esattamente di questo ritorno al conosciuto ciò di cui l’individuo ha sete: solo ritrovando i frammenti mancanti del puzzle egli potrà intuire l’immagine dispersa e ricomporla per potersi guardare di nuovo chiedendosi quando l’uomo ha smesso di essere umano.

Giulia Bovassi

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